Il quartiere Merlo è oggi popolato di pensionati, professionisti, poeti e santi. È considerato uno dei quartieri all’avanguardia per gestione della cosa pubblica, per l’esuberanza delle iniziative e per la vivacità delle comunicazioni sociali.
Ma un tempo la contrà Merlo era considerata un sottoprodotto della città. Era una borgata della già poco considerata frazione Santa Croce. Bassano era la città. Il Merlo era la “tettoia” di villa Giusti, ove trovavano riparo i mezzadri della contessa e qualche disperso della montagna. Pochi i poeti, meno ancora i pensionati, qualche navigante. Al Merlo si arrivava per via Travettore, una strada sterrata ove transitavano le biciclette dei pendolari che si recavano dai paesi del “caivo” a lavorare alle smalterie metallurgiche venete. Lavorare dai Westen a fare pentole era un privilegio che a pochi era concesso. Si entrava solo con la raccomandazione del Vescovo.
Al Merlo qualcuno lavorava alle smalterie. Ma la maggioranza delle poche famiglie si cibava dei resti che cadevano dalla mensa Giusti del Giardino e da qualche bicchiere di latte succhiato nottetempo dalle vacche a mezzadria che il fattore controllava come sue concubine. Le poche bestie da stalla libere dagli occhi del padrone erano un patrimonio prezioso.
Giovanni “Roaro” era arciconosciuto. Mediatore di bestiame nella contrada Merlo era un signore temuto e ammirato. Era un omone di quasi un metro e novanta, spalle larghe, pugno ferreo, mano pesante. Era temuto perché era facile a decantare poesie sia al mattutino che alla sera. E quelle erano bestemmie di vario genere,cesellate fino ai minimi particolari con un repertorio da far invidia a Boccaccio. Roba da far tremare le fondamenta della casa ove abitava con la sorella Teresa, sulla curva del Merlo, di fronte al capitello della Madonna Assunta, alla cui realizzazione aveva perfino contribuito.
Il mediatore “Roaro”, negli ambienti agricoli di Bassano era una istituzione. Non si sa di che origini fosse, vista la statura. Probabilmente era disceso dalle oscure vallate del trentino popolate di orsi e aquile, non si sa se a piedi o in barca. Ed era approdato nella insignificante, almeno allora, frazione del Merlo.
Quivi aveva trovato dimora nel punto strategico della frazione. Nella curva. Così poteva controllare i passanti che in curva dovevano rallentare. Non che il traffico fosse intenso. Qualche bicicletta e qualche carro di contadini. Salvo il mezzo di Mario “el pessaro”. Che oltre alla qualità di vendere “masanete” aveva quella di avere una bellissima figlia, andata poi in sposa al Mayer padre del contemporaneo e noto musicista Giovanni. Non si sa se tra i due, Giovanni e Mario, uno interessato alle “masanete” e uno al commercio di animali, fosse corso buon sangue. Sicuramente buon vino, e tanto.
Giovanni “Roaro” era un notissimo mediatore di bestiame. Una professione temuta e ammirata. I Contadini lo vedevano arrivare e dipendeva da lui la valutazione di mesi e mesi di lavoro nella stalla. Sua Signoria Roaro diventava giudice assoluto. A Santa Croce contava più della contessa Giusti del Giardino.
Quando entrava in una stalla per vedere l’animale da vendere, i contadini tremavano. Poi si sputavano sulla mano e concludevano l’impegno a vendere al miglior prezzo. Quello naturalmente che il mediatore aveva in testa. E giù qualche buona e sconosciuta bestemmia se il contadino non accettava. I poveri cristiani di fronte agli improperi accettavano. E poi si brindava con vino da botte. Tanto vino. Le processioni solenni che la parrocchia di Santa Croce organizzava durante la primavera e l’estate vedevano la partecipazione di tutti, ma non di Roaro. Si passava davanti al capitello e quindi a casa sua, ma l’uomo continuava imperterrito a lavorare. Manco si levava il cappello al passaggio del Santissimo. Guardava di sottecchi il parroco don Didimo Mantiero, verso cui nutriva una innata antipatia. Con il giovane cappellano don Luigi Tassoni riusciva invece a malapena a esprimere un saluto di pura cortesia, per rispetto della sorella Teresa che del cappellano aveva una grande stima.
Ma per Giovanni Roaro venne anzitempo il momento del rendiconto. La vita da mediatore di bestiame e la doverosa devozione al vino di qualsiasi tipo e provenienza minò il suo organismo, che cominciò a dare segni di cedimento: probabile cirrosi epatica. Una malattia micidiale nonostante il nome da ballerina.
Don Luigi Tassoni era un giovane e aitante cappellano. Era giunto a Santa Croce dopo alcune esperienza pastorali a Vicenza e a Marostica. Si era subito imposto per il suo fare brillante, moderno estroverso. Tutto l’opposto del parroco don Didimo Mantiero, uomo “ruspio” e riservato. A don Luigi era stata affidata la pastorale giovanile. Una delle prime moto in circolazione a Santa Croce, la famosa RUMI era stata benedetta e provata lungamente dal dinamico sacerdote. Pensando di non dare scandalo alle buone famiglie della parrocchia il cappellano si era poi arreso a comperare il Galletto Guzzi di colore bianco, manutenuta alla perfezione dal capo-meccanici Corrado Mariotto in Via Verci, con cui scorrazzava per le stradine polverose di Santa Croce per la visita agli ammalati e anziani o per portare a spasso i suoi giovani. E di giovani ne aveva tanti. Il luogo di ritrovo era la vecchia e cadente canonica e la chiesa vecchia, resa disponibile come luogo di incontro e spettacoli dopo la costruzione della maestosa chiesa nuova. La vecchia chiesa e la vecchia canonica erano state teatro di eventi eccezionali e di colorati episodi. Già ai tempi del precedente cappellano don Primo Bertoldi, uomo impulsivo e generoso, circolavano voci su scherzi che rasentavano la dissacrazione. Famoso resta quello in cui con a capo don Primo, furono usate le vesti della Madonna Addolorata, sostituita da una statua in legno, per imbastire una processione nel mese di ottobre in casa di “Chichi” Simonetto durante le operazioni di scartocciamento del granoturco sotto il portico. “Chichi” Simonetto indignato per la sceneggiata colpì con un grosso pugno il primo della processione coperto da un mantello nero. Ed era proprio il cappellano don Primo. Per cui il povero “Chichi” continuava a confessarsi di aver picchiato un prete.
Questo era il terreno su cui don Luigi era chiamato a prestare la sua opera educativa. E in pochi anni riuscì a risollevare le sorti dell’Azione Cattolica, del coro parrocchiale, delle Acli e di tante altre attività. A dispetto delle sue origini ad Alonte nella bassa vicentina, che rievocava luoghi dell’inferno dantesco, il cappellano si inserì magnificamente anche nel tessuto cittadino. Grazie alla sua amabilità, dialogava con tutti, compresi i massoni e i senza Dio.
Tra i suoi “lontani” vi era pure Giovanni “Roaro”. Don Luigi, considerato il carattere del mediatore di bestiame e della sua avversione a qualsiasi forma esterna di pratica religiosa aveva fatto leva sulla sorella di Giovanni, la signora Teresa, discreta e di maniere signorili.
Tramite la signora Teresa aveva tentato inutilmente di avvicinare Giovanni nella speranza di ammansirlo e di avvicinarlo ai sacramenti. Erano quelli i tempi in cui i preti si preoccupavano della sorte delle anime loro affidate.
Fine prima parte