“Meminisse juvabit”, ha ragione Virgilio. Ricordare è gradito. Trent’anni dopo, se penso a quei tre decenni trascorsi da quando nacque il Premio di Cultura cattolica, sono preso dalla dolcezza del ricordo. Un impegno svolto in non causale conformità con l’insegnamento di due pontefici assai benemeriti per l’incitamento a riscoprire, promuovere, comunicare quel matrimonio di fides et ratio in cui consiste la cultura cattolica. I trent’anni del nostro premio coincidono con i cinquanta del Concilio Vaticano II, un grande evento al quale ci siamo sempre ispirati e che l’alto magistero di Giovanni Paolo II e ora di Benedetto XVI ci consente di capire pienamente: oggi, infatti, l’autenticità del Concilio sta emergendo dalle nebbie non poche, con cui non di rado il postconcilio lo aveva confuso e mistificato.
Il Premio Cultura cattolica è nato pochi anni dopo l’elezione di papa Wojtyla e ha inteso riconoscersi nella linea portante del suo pontificato: ristabilire quella continuità, che da sempre è la ricchezza della Chiesa, una Chiesa è sempre nuova perché sempre riscoperta e rinnovata, e sempre vecchia perché mai superata o dimenticata. La scelta dei premiati ha sempre evitato l’artefatta contrapposizione tra cattolici aperti e progressisti, e pertanto “buoni” da un lato, e cattolici chiusi e conservatori, e pertanto “cattivi” dall’altro, uno schema che può nutrire l’industria culturale laicista, ma è del tutto inadatto per capire e vivere dall’interno la vita della Chiesa. Se rileggo quei ventinove nomi (escludo ovviamente il primo) li vedo tutti impegnati nella modernità, ma non impregnati di modernità. Uomini capaci, secondo la formula di Giovanni Paolo II, di “fare della fede cultura”, in quanto fides et ratio sono distinte e complementari: aprirsi al mondo non significa inginocchiarsi davanti al mondo; il cristianesimo è umanesimo, ma non si risolve e non si dissolve in esso; tutto ciò che è cristiano è anche umano, ma non sempre è vero il contrario; la civiltà cristiana ha favorito al massimo l’emancipazione sociale, ma il destino ultimo dell’uomo va oltre; la redenzione dell’uomo non può essere confusa con la sua liberazione dalla miseria, anche se di certo deve favorirla; la previdenza non sostituisce la provvidenza; il vangelo è certo una rivoluzione, ma tante rivoluzioni sono inammissibili per il cristiano.
Abbiamo goduto, in questi trent’anni, dei frutti positivi e cospicui del Concilio. Basterebbe pensare alla riscoperta della Bibbia, alla caduta delle eccessive burocrazie ecclesiastiche, al superamento di non pochi formalismi, alla semplificazione dei rapporti tra pastori e fedeli, al ruolo ecclesiale del laicato maschile e femminile. Tuttavia le nubi non sono mancate. La frequenza ai riti continua a diminuire, le vocazioni religiose sono rare e non pochi ordini debbono chiudere, la morale dei cattolici in molti paesi appare difforme dalle verità riaffermate dal Concilio e pratiche incompatibili col Vangelo come divorzio, aborto, eutanasia, manipolazioni genetiche sono ormai entrate non solo nella legislazione, ma anche nella coscienza di non pochi fedeli. E i cattolici, nel mondo, anche se hanno sostituito, come giustamente chiedeva il Concilio, la spada col ramoscello d’ulivo, sono in più nazioni oggetto quasi ogni giorno di persecuzioni e anche di stragi.
Lo spirito del Concilio è ancora valido, ma i fatti che lo hanno seguito non sono stati sempre positivi. Per fortuna oggi non convincono più molti quegli slogan da mercato delle pulci, dai quali gli autentici uomini di cultura da noi premiati si sono sempre mantenuti lontani: l’epoca costantiniana, il dialogo, l’ortoprassi, la Chiesa che si fa mondo, la deellenizzazione e la deromanizzazione, e si potrebbe continuare a lungo. Non per rifiutare quanto di valido anch’essi esprimevano, ma per trasferirlo dalla sfera superficiale dell’emozione a quella della razionalità. Le nostre scelte sono state animate dall’imperativo perenne della Chiesa, quello della notissima espressione del vangelo secondo Matteo (Mt 13, 52): il tesoro della Chiesa è un insieme di “nova et vetera”, di cose nuove e di cose vecchie. E anche la cultura cattolica è una sintesi inscindibile di continuità e rinnovamento. Dato che senza il rinnovamento, le cose vecchie sono da gettare; senza la tradizione, le cose nuove sono effimere, perché prive di fondamento.
Gianfranco Morra