
Seconda parte di \”Un grosso affare\” uscito nella precedente Voce dei Giovani
LA STANZA DI SHERLOCK HOLMES
Un grosso affare
(seconda parte)
PRIMA PARTE...
Quando Giovanni Roaro si ammalò seriamente, don Luigi Tassoni, che di quell’anima era diventato il segugio, aveva tentato inutilmente di entrare nella camera di Roaro e tramite la sorella Teresa di cominciare a parlare di vita eterna, di resurrezione dai morti, di vita beata. Ma il malato era irremovibile. Sottomettersi ai preti e per di più di campagna era una umiliazione insopportabile. Il malato cominciò a vaneggiare e a perdere lucidità. Tra le altre cose non aveva neanche fatto testamento. Erano quelli i tempi in cui il diritto di famiglia era ancora al di là da venire. Come tutti i mediatori di bestiame, confessarsi e fare testamento costituiva un momento di debolezza. I familiari erano ancora fiduciosi sul testamento. Infatti avevano allertato il notaio Ziliotto, dichiaratosi sempre disponibile anche di notte per raccogliere le ultime volontà del morituro. Quanto alle questioni di anima, i familiari non potevano far niente. La signora Teresa si era affidata a don Luigi, il quale stremato dai continui tentativi si era arreso e ne aveva parlato con seria preoccupazione durante il pranzo al parroco don Didimo.
Don Didimo era il prete meno indicato a parlare con Giovanni Roaro. Tra i due correva una antipatia reciproca. Uno “ruspio” e l’altro anticlericale.
Don Didimo ebbe una fulminazione mentale e ne parlò a don Luigi. Il primo avrebbe giocato le sue carte con il Signore del tabernacolo, cosa che aveva fatto ancora per il passato, e l’altro si sarebbe immolato a precipitarsi in casa Roaro, se vi fosse stata una ben che minima possibilità. E intanto Giovanni Roaro si era ulteriormente aggravato. Anima persa, sospirarono i due sacerdoti. Si cominciò pure a parlare di come sarebbe stato il funerale. Purtuttavia don Didimo si recò in chiesa. Ed ebbe la sua sparata. “Signore – pregò – se la Dieci ti è gradita nella mia parrocchia dammi un segno: fa che Giovanni si confessi e muoia nella tua pace”.
Sapeva di averla detta grossa. Primo perché gli sembrava di covare ancora il dispiacere di quando il Vescovo Zinato gli aveva ordinato di distruggere gli elenchi degli iscritti alla Dieci in tutta Italia e gli aveva consentito di riprenderla solo nella sua parrocchia di Santa Croce. E poi perché alla sua età di quarantasettenne parroco gli pareva ardito tentare il Signore come aveva fatto da giovane cappellano trentenne per avere un segno. Mons. Carlo Zinato, veneziano purosangue, era stato nominato vescovo di Vicenza nel settembre dell’anno 1943, dopo la morte del suo insigne predecessore mons. Ferdinando Rodolfi. Quest’ultimo era stato il vescovo che aveva consacrato sacerdote don Didimo Mantiero nella cattedrale di Vicenza il 22 maggio 1927.
Di questo insigne vescovo don Didimo ebbe sempre una ammirazione incondizionata e ne aveva più di un motivo. Mons. Ferdinando Rodolfi era stato nominato vescovo di Vicenza nell’anno 1911 da Papa Pio X, che lo aveva anticipato ad un sacerdote della Diocesi, prima ancora della nomina, come “un vescovo che si muove e vi farà muovere”. Era stato un vero condottiero per la Diocesi, provata dalla prima guerra mondiale e dal periodo del fascismo, contro il quale il vescovo si scagliò con coraggio unanimemente riconosciuto. Rodolfi, professore di matematica e fisica, teologo, filosofo, era un organizzatore formidabile. Fra le attività sue predilette c’era l’insegnamento della dottrina cristiana ai fanciulli, che in diocesi di Vicenza organizzò capillarmente e con buona preparazione dei catechisti. Scrisse nel 1942 poco prima di morire: «Conchiudo, reverendissimi sacerdoti, raccomandandovi che senza trascurare alcuno degli altri doveri, tutti importanti, del vostro ministero, abbiate a tenere in somma considerazione la istruzione catechistica, come quella che consolida le basi delle fede e forma il carattere cristiano delle generazioni future». Da tale esempio don Didimo trasse il suo progetto di catechismo fino al servizio militare di cui fu intrepido, quanto inascoltato, propugnatore. Mons. Rodolfi santamente morì consumato da un tumore il 12 gennaio 1943.
Della Dieci, sorta nel 1941 a Santorso, don Didimo non aveva potuto parlare approfonditamente con Mons. Rodolfi, già minato nella salute.
Con mons. Zinato don Didimo affrontò il problema a più riprese, ma il Vescovo, da buon veneziano, navigò al largo. Non disse mai che l’associazione non gli andava a genio. Ma neppure aveva il coraggio di eliminarla (“Guai ad eliminare una luce che nasce nella Diocesi”) considerandola una stravaganza del giovane don Didimo.
Una volta nominato parroco a Santa Croce nel 1953, don Mantiero chiese devotamente al Vescovo se poteva riprendere la Dieci nella sua parrocchia. Il Vescovo Zinato glielo consentì. Ma tra lui e don Mantiero vi fu sempre una scarsa simpatia, aggravata anche da un episodio clamoroso che don Didimo raccontava ai suoi stretti collaboratori. Durante la prima visita, don Didimo parroco, per l’amministrazione della cresima nel periodo caldo dell’anno, dopo la cerimonia il Vescovo incontrò il gruppo dei fabbriceri parrocchiali. Nella sala da pranzo la perpetua Edvige aveva preparato un vassoio con una bottiglia di vino e una di grappa fatta in casa. Al momento del brindisi il Vescovo declinò l’invito a sorseggiare il vino e vista la bottiglia bianca se ne versò mezzo bicchiere e lo tracannò tutto d’un fiato, visto che aveva molta sete, pensandola acqua. Fece un salto all’indietro e sputò per terra quel rinomato prodotto bassanese esclamando: “mi volete avvelenare!”. Sgomento e panico tra i presenti, tra cui il parroco, che si prosternò in scuse e riverenze. Ma ormai la frittata era stata fatta.
Alla luce della scarsa simpatia con il Vescovo, don Didimo nutriva qualche dubbio anche sulla Dieci.
Naturale che di fronte all’aggravarsi della malattia di Giovanni Roaro don Didimo, come Abramo, fosse colto dal desiderio di tentare il Signore. Pregò, dunque, ed attese.
Era la fine dell’anno 1959. Roaro cominciò a perdere ogni tanto la lucidità. Di fare testamento neanche la più lontana idea. Di confessarsi men che meno. Aveva solo 60 anni. Era fuori luogo pensare alla morte. Don Luigi Tassoni passava quotidianamente chiedendo alla signora Teresa notizie del malato e se vi era stato qualche segnale di avvicinamento ai sacramenti. Risposta inesorabilmente negativa. E durante un notte burrascosa il Giovanni entrò in coma. Don Luigi e don Didimo persero le speranze di salvare quell’anima per la quale avevano impegnato tante attenzioni. Ma al mattino verso il mezzogiorno don Didimo ricevette una telefonata in canonica. Il moribondo si era risvegliato dal coma e pareva disposto a confessarsi. I parenti avevano inoltrato la stessa comunicazione al notaio.
Don Luigi Tassoni si precipitò con il suo Galletto Guzzi in contrada Merlo. Entrò nella casa del Roaro e ne uscì dopo oltre due ore, tutto sudato. Giovanni Raoaro si era finalmente confessato. Entrò pure il notaio per il testamento, ma il Giovanni rientrò nel coma e dopo poco morì.
Era il 31 dicembre 1959. Don Didimo considerò quell’episodio come un segno del Signore, che per le intercessioni di tante preghiere aveva concesso a Giovanni Raoaro il tempo per confessarsi ma non per fare testamento.
E Giovanni Roaro, da buon mediatore, se ne andò in pace con Dio e perdonato dai contadini. Finalmente aveva fatto un grosso affare, con la mediazione non sua ma di altre sconosciute anime oranti, come insegna la sana dottrina cattolica.
FINE
Sherlock
ARTICOLO PUBBLICATO NEL
LA VOCE DEI GIOVANI - GIUGNO 2013