LINK – PRIMA PARTE DE \”IL BREVIARIO SCOMPARSO
Luigi Fabris era un personaggio stranissimo. Girava con la sorella zitella indossando una giacca di tre misure più grandi della sua taglia e con appuntate al petto diverse medaglie decorative. Lui proveniva e abitava nella cosidetta “piccola Russia” di via Capitelvecchio. L’aggregato di baracche in legno ospitava una umanità alquanto diversa, dai senza tetto agli sfollati e diseredati. La baraccopoli era stata realizzata nei primi anni quaranta ed era impenetrabile ad ogni tentativo di messaggio cristiano. La chiamavano piccola Russia per il nucleo forte di comunisti all’ultimo sangue, violenti, alcolizzati e raffinati bestemmiatori. Il clero della zona passava alla larga considerando irrecuperabile quella umanità che sopravviveva di espedienti poco chiari. Le baracche erano costituite da un’unica stanza con pavimento in terra battuta. I servizi igienici erano alquanto mobili, con i cosìddetti “cagaori” spostabili secondo necessità e costituiti da lamiere o pareti in paglia.
Quando don Didimo giunse a Santa Croce nel 1953 non si era ancora spento l’eco delle violente battaglie politiche del 1948 tra democristiani e comunisti. Dio non esisteva nella piccola Russia, esistevano solo Stalin e Togliatti. Don Didimo, abituato alle lotte operaie in quel di Valdagno, fu subito attratto da quella baraccopoli. Andò a benedire le baracche a Pasqua, come di consueto. Fu subito accolto con pericolosa diffidenza, quasi come un essere immondo. Ma il prete pose le sue basi strategiche, forte delle sue conoscenze psicologiche. Entrò nella casa della Settin, una santa donna, povera vecchia malata e bastonata dal marito alcolizzato. Le domandò carità di preghiere per i suoi giovani. Incontrò anche “requiem aeternam” una donna irrequieta, che vantava nel suo curriculum l’essere stata alla reception di una casa di tolleranza. La donna non oppose resistenza alla benedizione della casa. Don Didimo le chiese un’Ave Maria. La donna si stupì. “Come? Lei chiede un’Ave Maria a me? Lei pensa che Dio mi ascolti?”. E quelle due donne divennero le quinte colonne della baraccopoli.
Ma nessuno degli abitanti della piccola Russia osava farsi vedere in chiesa a Santa Croce. Il parroco era simpatico, ma in chiesa no! Disperati e comunisti si vergognavano di farsi vedere tra le persone normali. Don Didimo fece un referendum. Niente Messa a Santa Croce, ma a Messa nella piccola Russia. Fu allestita una cappella in una baracca liberatasi per la morte dell’inquilino. E fu inaugurata la “Cattedrale” della piccola Russia, dove ogni domenica alle ore 8.30 si celebrava la Messa per i residenti. Don Didimo si guadagnò l’appellativo di “pope” per stare in tema di piccola Russia. E quel glorioso appellativo dato al prete poco ortodosso che celebrava la Messa per i comunisti della piccola Russia fu il nome di battaglia di don Didimo anche nella sua canonica, quando iniziò l’avventura del Comune dei Giovani. Il “pope” era uno solo e i giovani erano fieri di stare al suo fianco nelle battaglie contro il laicismo cittadino.
Di quella cattedrale don Didimo nominò sacrestano proprio Luigi Fabris. Questi era conosciuto perché, un po’ ritardato mentale, ai giovani si esibiva con il suo canto del gallo. Se si voleva renderlo felice, bisognava farlo esibire con il canto del gallo. E in canonica il Fabris aveva cominciato ad essere di casa. Girava di domenica, quando i giovani giocavano a carte, per chiedere alla perpetua senza parlare qualche cosa buona da mangiare. E la buona Edvige lo accontentava mentre lui volentieri le faceva il suo chicchirichì. Il Fabris aveva imparato a servir Messa e diligentemente preparava tutto l’occorrente per le cerimonie della domenica. Lui, analfabeta, era affascinato dai libri liturgici. Ai giovani che lo apostrofavano chiedendogli a che punto avesse imparato la Messa, dimostrava quel che aveva imparato, rispondendo anche in latino. “Dominus vobiscum”. Con quanto orgoglio suonava la campanella della “cattedrale” e con quanta competenza e serietà raccoglieva le elemosine tra i baraccati, tra i Fittole, i Donadello, i Zanon, i Marchi, tutta gente abituata a ben altri linguaggi e poco abituata al profumo dell’incenso. Dopo il prete, Fabris era la persona più in vista della piccola Russia. Lo rispettavano perché era considerato uno strano e allegro minorato.
Venne anche per Luigi Fabris il tempo della vecchiaia. Era tra i miserabili. Non aveva nessuno. Trovò solo la buonanima di Nico che lo seguiva per le faccende domestiche e le carte della pensione. Venne il tempo dell’abbattimento delle baracche per far posto a più decenti abitazioni. Fabris fu trasferito dalla baraccopoli della piccola Russia alle case operaie di via Bonaguro assieme alla sorella. In quella circostanza bisognava traslocare anche gli stracci dei poveretti. Mobili non ne avevano e tantomeno denari.
Il buon Nico raccolse le poche cose da portare in discarica. Nel frugare tra qualche libro di preghiere sul comodino della miserabile stanza da letto scappò fuori un “Breviarium Romanum”, con dentro la fotografia di mons. Mantiero, Vescovo di Treviso. Sulla prima pagina bianca del frontespizio del breviario era scritto con calligrafia da analfabeta: Fabris Luigi.
Nico chiese cosa se ne dovesse fare di quel breviarium, se avviarlo alla discarica.
Fu salvato dalla distruzione.
Sembrava proprio il “Breviarium Romanum” di don Didimo.
Sembrava, perché ormai non era più possibile chiederlo all’interessato.
FINE