Don Didimo era tornato stanco a bordo della sua lambretta dalla curia di Vicenza. Il caldo afoso di maggio e un colloquio alquanto teso con mons. Borsato in curia per via della dottrina cristiana che a Santa Croce, a sentire il prelato, non si faceva, avevano fiaccato la dose di resistenza quotidiana del prete di campagna. Non che gli mancassero elementi di conforto, ma sentire i suoi superiori, ben protetti dagli attacchi della scristianizzazione, che lo rimproveravano per aver fatto troppo e al di fuori degli schemi studiati a tavolino dai professori di teologia, lo rendevano nervoso. La perpetua Edvige, vedendolo scendere dalla motocicletta con difficoltà, aveva subito capito che non tirava una buona aria. Gli sottopose un mestolo di minestra di fagioli, tanto per rompere la cappa di umidità che soffocava la canonica, sperando in un benefico effetto sulle viscere del prevosto. Don Didimo non chiese nulla, mugugnò qualche incomprensibile parola e se ne andò a fare il pisolino quotidiano. Edvige staccò il campanello ad evitare che qualche buon’anima si intrufolasse nella privacy, sorrise ai canarini che la imbeccavano con i loro cinguettii e si ritirò nel retrocucina a rammendare alcune malmesse vesti talari del suo capo. La quiete regnava sovrana.
Verso le quattro del pomeriggio il prete si alzò dal suo giaciglio. Scese le scale con le sopracciglia aggrottate. Era il segno del “vade retro”. Quando l’occhio del padrone era arrossato significava che la pace era in pericolo. Don Didimo entrò nel suo studio. Si sedette alla sua scrivania, come suo solito, inforcò gli occhiali, raddrizzò l’inseparabile tricorno e allungò automaticamente il braccio verso il breviario che aveva posato sulla sua destra prima di andare a Vicenza. Ma, con sua grande meraviglia, scorse solo la custodia. Il breviario era sparito. Si passò la mano sulla fronte per raccogliere le idee, per valutare se veramente l’aveva lasciato sulla scrivania o l’avesse posato altrove. Gli pareva di essere sicuro che il breviario, dopo la recita del mattutino, era stato posato accanto allo scrittoio, ma non entro la custodia. E ora la custodia era ancora lì, ma non il “breviarium romanum” che gli era stato donato il giorno del suo ingresso, il 26 aprile 1953, dal popolo di Santa Croce. Si trattava di un’elegante edizione rilegata in pelle e pagine bordate in oro, rigorosamente in latino. Se lo ricordava, quel giorno di aprile, quando proveniente dall’amata Valdagno era stato accolto all’inizio di viale S. Croce, il lunghissimo viale dei cipressi che conduce al cimitero di Bassano, tra due inquietanti siepi di spine. Lo avevano accolto con gioia i suoi parrocchiani, che gli avevano fatto una gran festa. Ma lui, sempre ostico alle cerimonie, aveva tratto l’impressione di essere stato messo al confine da qualche potentato di Valdagno in accordo con la curia. Anche a S. Croce vi era un signor conte, anzi la contessa Giusti del Giardino, ma si trattava di una nobile possidente terriera. Niente a che vedere con il conte Gaetano Marzotto, patron di Valdagno, con cui il giovane prete ebbe più di qualche incontro, o scontro. Valdagno, anzi San Clemente di Valdagno, era una parrocchia cittadina che inglobava i grandi stabilimenti tessili di Marzotto, pioniere dell’industrializzazione con Rossi di Schio. Anche gli abitanti di Valdagno erano diversi dai nuovi parrocchiani. A Valdagno vi erano due squadre di calcio, una di serie B, un enorme oratorio, scuole di ogni ordine e grado. Lì si poteva parlare di filosofia e di Dante. Era stato capito. Ma a Santa Croce? Non esisteva un centro parrocchiale. Solo la splendida Chiesa, la nuova canonica e l’enorme cimitero. Poi frazioni distanti dall’inesistente centro e collegate da viottoli di campagna polverosi e limitati da alte e paurose siepi. Che apostolato avrebbe potuto fare lui, quarantenne dalle grandi esperienze educative e grandi aspirazioni apostoliche? La gente era buona, ma si sa che i contadini, tutti mezzadri della contessa e di qualche altra potente famiglia proprietaria terriera, non si cibavano di poesia e di letteratura, fosse anche quella cristiana. Loro vivevano sobriamente ed erano buoni cristiani. Ma nulla toglie al fatto che per i contadini del tempo il vanto più grande era quello di avere una cantina fornita di buone soppresse e salami ed un poderoso letamaio accanto alle finestre di casa. Era il segno del benessere. E guai a toccare questi due beni di lusso. Ben lo sapevano quei giovani scapestrati dell’Azione cattolica, che lungo via Ca’ Dolfin, di notte, all’altezza delle case Zen, spostarono un intero letamaio dalla sinistra alla destra della strada, su proprietà diverse per far bisticciare le rispettive famiglie.
E ben conoscevano il fascino della sopressa quegli illustri bassanesi che calavano come colombi sull’aia della casa colonica dell’amato zio Piero “el madego”.
Ma da queste realtà il nuovo parroco non era affatto attratto. Uno dei pochi vantaggi della nuova sistemazione pastorale era la assoluta tranquillità del luogo e la straordinaria generosità del popolo, che il precedente parroco don Antonio Magnaguagno aveva coltivato con invidiabile amore.
Quel breviarium romanum, in quattro volumi a seconda dei tempi liturgici, era per Don Didimo un chiaro segno che il suo compito a santa Croce era principalmente la preghiera. E di questo segno ringraziava Dio e la comunità cristiana.
Ma chi avrebbe potuto essere interessato al suo breviario, se effettivamente qualcuno l’aveva furtivamente sottratto dalla sua scrivania? Era la domanda che cominciò a turbare il parroco. Il Breviario, libro della preghiera liturgica quotidiana per i preti, era il lingua latina e nessuno a Santa Croce conosceva quella lingua. Si cantavano i vespri in Chiesa, in latino, ma tanti erano gli strafalcioni che uscivano dalla bocca dei suoi parrocchiani, che talvolta si doveva per forza sorridere. Don Didimo pensò anche ad un dispetto. Ma un tale dispetto doveva essere frutto di una intelligenza raffinata. E a Santa Croce di intelligenze di quel tipo ne conosceva molto poche. Dopo qualche momento di riflessione si alzò e rovistò tra la sua collezione di breviari. Ne possedeva tre, tutti ricevuti in dono. Il primo ricevuto in occasione delle sua ordinazione sacerdotale il 22 maggio 1937, in carta ordinaria visti i difficili tempi economici. Il secondo, ricevuto al suo ingresso a Valdagno nel 1946, era anch’esso in carta ordinaria. Ma il più prezioso era quello donatogli dalla comunità e dalla fabbriceria di Santa Croce. Di quest’ultimo mancava il volume su cui aveva recitato il mattutino alla mattina. Era sicuro di averlo chiuso alla pagina in cui vi aveva inserito la fotografia dell’amato zio vescovo di Treviso. Il prete, allora in preda ad un comprensibile nervosismo, sottopose ad interrogatorio la fida perpetua, che tutto sapeva, per conoscere le visite della mattinata in cui lui era stato a Vicenza. Edvige verbalizzò sotto giuramento che quel mattino nessuno era entrato in canonica, che lei l’avesse visto. Era sempre rimasta in cucina e la porta d’ingresso era chiusa. Il cappellano era agli esercizi spirituali. Lei si era assentata solamente verso le dieci per qualche minuto per andare nell’orto a prendere la salvia. Possibile che qualcuno si fosse infilato nella porta socchiusa, e avesse puntato dritto alla scrivania del parroco per sottrargli il breviario? Neanche fosse d’oro. Quel fatto segnò la conversazione per molti anni. Un libro di preghiere in latinorum sparito nel nulla.
Qualcuno dell’enturage suggerì a don Didimo persino di recitare i sequeri (“Si quaeris…”), metodo infallibile per trovare le cose perdute o per far ritornare le rubate. Tutto fu inutile.
L’enigma non ebbe risposta né il breviarium ricomparve.
Il prete si mise il cuore in pace. Continuò a recitare le sue preghiere sugli altri breviari. Terminò il suo servizio alla parrocchia di Santa Croce. Si ritirò in un piccolo appartamento. Portò con
sé i suoi libri più cari. Fece attenzione se nel trasloco il breviario fosse ricomparso, magari frammisto agli altro volumi della sua nutrita biblioteca. Nessuna risposta al suo desiderio. Morì la perpetua Edvige e morì anche don Didimo.
FINE PRIMA PARTE